Mennea 19.72, quarant'anni da record

09 Settembre 2019

Giovedì 12 settembre l'anniversario del primato del mondo di Città del Messico '79, la mitica volata della Freccia del Sud nei 200 metri. Le emozioni di un'impresa indimenticabile

di Giorgio Cimbrico

Quel numero sulla maglia, 314, è un p greco barlettano, è una costante matematica inventata da un altro uomo del Sud, Archimede, è l’origine di un numero complesso su cui non si sono depositate le polveri del tempo: 19.72. I quarant’anni che saranno passati il 12 settembre 2019 non l’hanno invecchiato. È sempre fresco come un buon film, è un classico, è una delle creature di Prometeo, pardon, di Pietro.

Per cominciare, niente di meglio del tabellino: Ciudad de Mexico, 12 settembre 1979, Universiade, finale dei 200, Stadio Olimpico, 2248 sul livello del mare, vento +1.8: 1. Pietro Mennea (Ita) 19.72 record del mondo, 2. Leszek Dunecki (Pol) 20.24, 3. Ainsley Bennett (Gbr) 20.42, 4. Altevir Silva de Araujo (Bra) 20.43, 5. Jens Smedegaard (Dan) 20.52, 6. Viktor Burakov (Urs) 20.74, 7. Georges Kablan Degnan (Civ) 20.88, 8. Otis Melvin (Usa) 22.97 che arrivò zoppicante.

Primo Nebiolo, presidente della Fisu, pontefice e artefice, inalberò un sorriso che arrivò sino alle pieghe del collo e che avrebbe bissato meno di un anno dopo al Lenin di Mosca, dopo esser sbucato, secondo la vulgata, da una cabina telefonica dove aveva letto un elenco telefonico in cirillico. La tensione logora anche i più disinvolti. Identica espressione avrebbe offerto un anno dopo ancora, approdando sul soglio della IAAF.

Pietro corse la prima metà in 10.34, la seconda in 9.38. Dieci anni fa, a Berlino, Usain Bolt non fu molto più veloce sui secondi 100, 9.27, ma i primi furono volati in 9.92. Sulla gara corta il Lampo aveva un vantaggio di 43 centesimi: 9.58 a 10.01.

Già questa piccola giungla di numeri, di raffronti, dà l’idea della portata di quel che avvenne lassù per lanciare lunghi fasci di luce che allungano tentacoli sino ai nostri giorni. Pietro, che nell’avviarsi verso l’appuntamento aveva corso in 10.01 (record europeo), in 19.90 e 20.04, finì per essere primatista del mondo per 16 anni e nove mesi (Jesse Owens tenne duro per meno di quindici anni, Michael Johnson per tredici); mantenne un posizione tra i primi dieci di sempre sino al 16 marzo 2018, trentotto anni abbondanti, quando il sudafricano Clarence Munyai centrò un estemporaneo 19.69; è primatista d’Europa, dopo esser stato minacciato da uno dei tanti cavalieri oscuri che hanno galoppato nello sprint, Kostas Kenteris, dal timido savoiardo Christophe Lemaitre, dall’azero-turco Ramil Guliyev che distano tredici, otto e quattro centesimi; ha il rassicurante vantaggio di 41 centesimi sull’azzurro più vicino, Fausto Desalu. Questa condizione di guida d’Europa e del suo Paese, Pietro l’ha vissuta per quasi 34 anni, sino al suo viaggio da dove nessuno ha mai fatto ritorno. Shakespeare è spesso utile, specie nelle occasioni importanti.

Undici centesimi e undici anni prima, stessa pista, poco prima di quello che venne chiamato Golgota moderno (i pugni chiusi sul podio, un’immagine del XX secolo come il miliziano morente di Robert Capa, come Albert Einstein che fa le beffe, come le bambine vietnamite che fuggono davanti al napalm), il prodigio di Tommie Smith, l’arrivo non a braccia alzate ma spalancate in un abbraccio, aveva stregato il sedicenne che correva con la maglia dell’Avis Barletta.

A TU PER TU - Dieci anni fa, una telefonata nel suo studio. Il trentesimo anniversario si avvicinava e il mondo costruito su una curva e su rettilineo era appena stato scosso dal 19.19 di Bolt.

Mennea, sul lanciato lei andava proprio forte.
“Era per via dell’allenamento. Nessuno ha mai lavorato come me. Tanto e bene”.

Quel giorno, il vertice.
“Diciamo pure così, ma le condizioni non erano eccezionali: avevo già gareggiato parecchio, prima e durante le Universiadi. La pista era liscia, senza granulosità: non riuscivo a morderla. E gli avversari non erano granché: il secondo finì a cinquanta centesimi abbondanti. È stata una lotta contro il cronometro”.

Distacchi alla Bolt.
“Più o meno”.

Comunque, uno sguardo al tabellone e…
“Uno sguardo al tabellone lo diedero quei giornalisti italiani che erano arrivati in ritardo per via del traffico. E qualcuno prese quel 19.72 per l’indicazione di un orologio un po’ svitato”.

E lei?
“L’ho detto: non ho guardato e mi sono accasciato. Aspettavo la reazione del pubblico, l’applauso. Venne l’una, venne l’altro”.

Carlo Vittori, il suo allenatore, ha sempre detto: “Fossimo tornati lassù un anno dopo, Pietro avrebbe tolto qualcosa a quel record”.
“Lo penso anch’io”.

Dica una cifra.
“19.60, e spiego il perché: dopo la vittoria ai Giochi di Mosca, un’infilata di vittorie con tempi pazzeschi, con una padronanza assoluta, con una forma perfetta. Ricordo tutto: il viaggio verso Pechino, la gara dopo poche ore dall’arrivo, la distanza bruciata in 20.03. Quando sono andato a dare un’occhiata al fotofinish, non credevo ai miei occhi: il macchinario aveva inquadrato solo me. Il secondo? A dieci metri”.

I mesi più belli.
“Direi gli anni più belli. Prendono il via con la delusione di Montreal ‘76, quarto, un passo indietro rispetto a Monaco ‘72 quando a vent’anni presi il bronzo. Buio, delusione? No, cose che capitano. Ha visto Yelena Isinbayeva a Berlino? Tre nulli e dieci giorni dopo il record del mondo. Funziona così: scuotersi. Una settimana dopo Montreal, corro a Viareggio in 20.23, il tempo della vittoria olimpica di Donald Quarrie”.

Ricominciare, sempre.
“C’era la volontà di andare avanti, di cercare nuove sfide: la prima coppa del mondo, nel ‘77, gli Europei di Praga, nel ‘78, con l’accoppiata 100-200, la sconfitta contro Wells in Coppa Europa, poco più di un mese prima di Messico, il record del mondo, l’oro di Mosca. Quando guardo indietro, mi stupisco”.

Di quel che ha fatto?
“No, di tutti quelli che ho finito per affrontare: generazioni intere di sprinter. E chissà perché il primo che mi viene in mente è il cubano Montes. Io ero un ragazzo, lui era uno da 10 netti. A seguire, Borzov, Edwards, Williams, Riddick, Taylor, Black, Wells, Ray. Cito così, senza un vero ordine. Sono arrivato a gareggiare con Carl Lewis, capisce?”

E a Helsinki ‘83, primi Mondiali, bronzo sui 200 e argento in staffetta a 31 anni.
“Non c’era solo Mennea”.

Oggi il mondo è abbagliato da Usain Bolt.
“È un fenomeno, è eccezionale ma non è un marziano. Mi sono trovato ad affrontare giganti del genere: uno era Larry Black; l’altro, Steve Williams. La scoperta di altri come Bolt è solo questione di tempo, di impegno, di ricerca. Il Caribe è una fabbrica di talenti ma qualcuno ha ancora esplorato a fondo l’Africa?”

Il suo anniversario è sempre più vicino.
“Non è stato dimenticato. A Formia mi daranno la cittadinanza onoraria: è su quella pista, in quella scuola, che ho costruito le mie vittorie e quel record. A Salerno una nave della Msc farà tappa per festeggiarmi. Sto per presentare il mio libro ’19.72, il record di un altro tempo’. E a Roma, alla terme di Caracalla, il 22 settembre, organizzano un festival sui 200: tutti in pista, dai ragazzini ai veterani”.

Correrà anche Mennea?
“Mennea non corre più anche se è tornato su accettabili limiti di peso. Mennea studia, lavora, viaggia, tutto a favore dell’atletica, dei suoi valori. Mi chiamano nelle scuole. Ho una Fondazione, scrivo. Ho corso in cinque Olimpiadi e ho cinque lauree: Isef, legge, scienze politiche, lettere e scienze motorie. Qualche volta mi trovo a pensare che avrei potuto fare qualcosa di più, ma il bilancio è positivo”.

Di un amico rapito dalla sorte, Hemingway disse: “Era così vivo che sembra impossibile sia morto”. Riascoltarlo è stato triste e bello.

Giovedì 12 settembre, in tutta Italia (QUI le sedi) l'impresa della Freccia del Sud sarà celebrata con il Mennea Day 2019.

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